Une vieille ruine enchanteresse

N° 16 Notturn Alley

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    “Imbocca il vicolo giusto a Notturn Alley e potrai trovare qualsiasi cosa tu voglia.”



    Superata la Gringott, un piccolo vicolo si snodava in tutta la sua sudicia bruttezza.
    Notturn Alley era sempre stato un posto che i maghi dai sani principi (o sani di mente) tendevano ad evitare. Sui muri scrostati ed anneriti dagli anni, vi erano innumerevoli foto segnaletiche una attaccata all’altra, dove gli occhi dei maghi oscuri, dei criminali e degli assassini guardavano i passanti quasi ad avvisarli di scappare da quel posto a gambe levate.

    1



    Al numero sedici di Notturn, una casa si differenziava dalle altre per bruttezza e trascuratezza. Il palazzo era un vecchio edificio nero e sbilenco, le finestre erano grandi, un lampione illuminava appena il rosso escoriato della porta. Le orbite cieche dei primi due piani erano state chiuse da assi pieni di chiodi in quello che sembrava un superficiale tentativo di tenere la gente fuori da quel rudere.
    Lui la chiamava “la sua affascinante vecchia rovina” e questa descrizione, sembrava calzargli a pennello.
    Salendo due rampe di scale, ci si trovava davanti a tre porte rosso vinaccia.
    I decori sul pesante legno raffiguravano tre animali: un drago a sinistra, un serpente al centro ed un leone sulla destra, su cui stipite vi era una Mezuzah dorata. Imboccando l’ultima porta sulla destra, si entrava in una stanza dai soffitti alti; le pareti erano ricoperte da una logora carta da parati, talmente rovinata, che ormai pareva quasi impossibile riuscire a distinguere il fogliame verde scuro.
    A troneggiare sul muro a sinistra, vi era un enorme camino di marmo verde giada, intarsiato con disegni di serpenti che si snodavano lungo le due colonne laterali; a lato, vicino alla grande finestra, un pianoforte a mezzacoda riempiva parte dello spazio disponibile.
    La sala aveva delle dimensioni modeste e l’arredo era ormai vecchio e sgangherato: il divano, di un rosso stinto, era posto su un vecchio tappeto persiano e le assi di legno del pavimento avevano perso lucentezza, sembrando quasi del legnaccio da cantiere.
    Persino la cucina - nulla di più che vecchi pensili di colori differenti ed una stufa a legna - non sembrava davvero una cucina, ma un insieme robaccia messa alla rinfusa all’angolo di un vecchio salone di una villa abbandonata.
    Il corridoio stretto e angusto presentava solo due porte: la prima conduceva direttamente nel laboratorio e la seconda, nella camera di Theo.

    Il laboratorio si trovava infondo al corridoio. Gran parte delle pareti erano ricoperte da appunti e scarabocchi che Theo appendeva al muro in un tripudio di caos che prende la forma elegante della sua scrittura minuta, simboli e cerchi alchemici. Anche se l'ambiente era totalmente spoglio di mobilio (tolta la scrivania vicino alla grande vetrata ed una sedia), ovunque si posava lo sguardo, vi erano alambicchi, strumentazioni ed ingredienti.

    Le pareti della sua camera ed il tetto a spiovente avevano un colore di un intenso nero lucido. Anche se i libri occupavano gran parte delle pareti, intervallati da quadri di paesaggi e dischi in vinile. L’intero ambiente aveva un ché di romantico e bohémien, forse per via dell’odore di patchouli, anice e mandarino, o per quel materasso perennemente sfatto posto su un piccolo soppalco, per quel vecchio grammofono che suonava ininterrottamente ogni volta che Lockhart era in casa, per la vasca da bagno che si intravedeva dal letto ogni volta che le porte del bagno erano aperte o quell’aspetto pulito ma terribilmente disordinato che aveva tutta la casa.

    Il luogo che aveva occupato e dove era stato costretto, era diventato uno spazio talmente denso di vissuto che Theodore riusciva persino ad identificarsi. Si rivedeva nel posacenere pieno ai piedi del letto, nelle tazze impilate una sopra l’altra, nei calzini sfilati sotto le coperte, la cera delle candele sul legno, i giornali, le fotografie. Quel posto era diventato un’estensione di sé.

    Mappa completa qui.

    Edited by Il Fato· - 15/6/2022, 11:05
     
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    20.07.22 - 03:25




    C'era un gesto che Theodore ripeteva ogni volta che oltrepassava la porta di casa: era un rituale, un'inerzia che affliggeva la sua mano destra ad alzarsi, e le sue dita scorrere sulla fredda placca di metallo della Mezuzah incassata sullo stipite.
    "Dio non c’è, eppure esiste."
    Erano le parole che si ripeteva in silenzio in un piccolo angolino della sua memoria, la voce di Rabbi David, il suo insegnante, a rimbombare come un eco distante, scolorito come una vecchia fotografia.
    Quella preghiera dopo anni di perdite e di abbandoni suonava la lenta litania di un necrologio funebre, e Theo era ormai stanco di tutte quelle persone che esistevano in qualche parte di mondo, ma non poteva più toccare o stringere a sé.
    Era forse per quella insopportabile dimensione di esistenza che aveva chiesto ad Einar di venire a stare da lui per un po', o forse era altro...
    In quei giorni di vicinanza, quella domanda inespressa era ormai diventata un tarlo fisso. Si chiedeva cosa mai gli era passato per la mente a lui, che era sempre stato distante, in qualche modo algido e distaccato nei rapporti personali, a far si che qualcosa scattasse per vomitare quella frase: Vieni a stare da me.

    Oltrepassò l'uscio nell'oscurità della notte. Con le mani impegnate a reggere le due pesanti buste che si portava appresso, neppure pensò di tirar fuori la bacchetta per accendere le luci. Si lasciò guidare dall'istinto di quel luogo conosciuto, ascoltando il pigro cigolio del legno delle assi del pavimento, il fruscio della sua camicia di raso, l'abbaiare del tedioso cane del vicino, il profumo di mandarino, anice e cedro che permeava la carta da parati del suo odore.
    In quel contesto così familiare, sentiva però la presenza estranea di Einar nella casa, nonostante non riuscisse ad intravederlo nell'ombra familiare della sua casa, o non sentisse rumori. Una sensazione sinistra e astratta, come un microscopico puntino nero impresso sulla retina dell'occhio.
    Avanzò cieco nel buio, lasciando scivolare le due buste sul piano della cucina; poi, accese le tre candele sulla finestra più vicina.

    Oggi a lavoro ho preso una cosa per te.

    Disse guardando un disco che usciva dalla busta più grande.

    Un tale ha comprato il locale dove lavoro, ma Zigler, il mio vecchio capo, nello sparire ha lasciato una marea di vinili e vecchie bottiglie di vino invecchiato nel suo ufficio...

    Da una delle due buste, tirò fuori una bottiglia di chardonnay del '97. Prese due calici dal mobiletto e si avvicinò lì dove stava Einar.
    Forse, oltre al mero senso di solitudine e perdita, l'idea di quella insolita convivenza sfociava anche nell'eccitazione perversa di avere una sorta di creatura pericolosa aggirarsi nella penombra del focolare di casa.
    Inconsciamente provava una deplorevole sensazione di appagamento all'idea di aver costretto qualcosa di intangibile o dannatamente sfuggevole ad una gabbia. Un godimento bieco e disdicevole, quello di piegare l'indomito. Simile ai sadici giochi dei ragazzini che tarpano le ali agli uccelli per noia.

    E... ho fatto tardi uscendo a lavoro anche perché ti ho preso qualcosa da bere... il sidro inizierà a farti schifo dopo questo.

    Si mise a sedere vicino a lui, allungando un braccio per porgergli il calice di vino. Si bagnò solo le labbra, per poi togliersi gli abiti che aveva indossato a lavoro come se nulla fosse.
    Einar Bjarnsson Ciao zucchero!
    Non ho specificato dove fosse Einar così da non muovere il tuo pg, piena libertà di decidere in che stanza stare.
     
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    Ed era proprio in quel buio ed in quella penombra che Einar, come se in quelli sapesse trovarci un conforto che i raggi del sole non sapevano dargli, usciva fuori dall'antro in cui si era annidato da quando era a casa di Theo. Non ne aveva costruito uno fisico e concreto, uno materiale, non avendo spostato niente nè toccato alcunchè di quella dimora - in parte per rispetto di chi ci viveva, in parte perchè i tre quarti delle cose lì presenti non le aveva mai viste, e francamente ne diffidava parecchio. Vedeva Theo muoversi e destreggiarsi in mezzo a strumenti musicali di cui ignorava l'esistenza, ne aveva scoperte altre, come ad esempio il grammofono capace nientemeno che di riprodurre musica da un disco piatto, eppure continuava a sentirsi terribilmente sbagliato e fuori luogo in un ambiente come quello. Nella città-incubo, quella da cui alla fine aveva deciso di proteggersi richiudendosi in sè stesso proprio - e per assurdo - quando la vicinanza con Theo si era invece enormemente intensificata. Che ciò riguardasse esclusivamente una vicinanza fisica sarebbe stato anche solo sciocco pensarlo, ma taceva, Einar, occupando le giornate di quella strana convalescenza in modi tristi e solitari. Scriveva e riempiva pagine di rune, faceva scorrere più e più volte il suo sacchetto che conteneva quelle incise, senza trarne mai nulla di soddisfacente, a giudicare da sbuffi e grugniti, e preparava lettere per Arne - spedito in qualche campo estivo benchè informato della temporanea sistemazione - che non avrebbe comunque inviato, ma solo conservato.

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    E poi, la notte, proprio come quella in cui Theodore era appena tornato, si accovacciava come un'ombra sinistra vicino alla finestra non distante dal pianoforte, seduto a guardare di fuori quello scorcio che la via di Notturn - o il retro del palazzo, offrivano. Era più che altro il cielo, quello che cercava. L'aria, quegli elementi che gli sembravano irraggiungibili, poco interessato persino a studiare i dettagli di un mondo in cui non avrebbe mai saputo integrarsi. Non lo aveva fatto neanche con i vestiti, per la verità; soffocato da una calura estiva che faceva a pugni con il clima rigido e freddo da cui proveniva Einar, piuttosto che accettare qualcosa di comodo e di casereccio, come dei boxer o dei pantaloncini da casa, insisteva nel vestire quel paio di pantaloni conciati a mano, lunghi fino alle caviglie scoperte seppur leggeri, e tenuti su in vita da una corda che gli faceva da cintura. C'erano ancora i residui delle stesse cicatrici che Theo aveva guarito e rattoppato in modo provvidenziale, si contavano sul resto del corpo scoperto di Einar che, forse anche a causa di quella posizione che privilegiava la penombra, sembrava quasi un marmo spento e da collezione. Sentì prima il rumore delle scale, poi quello della porta aprirsi, e dopo ancora i passi di Theo che non guardò fino a quando non lo sentì parlare, abbastanza vicino, ed armeggiare con le buste e le candele.

    Cosa è ufficio?

    Ne faceva ogni tanto, di domande come quelle. Cercando di prendere da Theo qualcosa del suo mondo, tacendole o risparmiandole solo quando sentiva di conoscerne troppo poco, nei momenti in cui l'umore scivolava di più verso il basso. Anche se, in quel contesto, la domanda era più una scappatoia per evitare di soffermarsi a pensare che Theo gli aveva preso una cosa, a lavoro. Che aveva avuto un pensiero, per lui, oltre alle ormai radicate e sempre più numerose motivazioni per cui Einar si sentiva già in debito nei suoi confronti.

    Dentro tuo piatto nero - disse, facendo un cenno in coda al suo verso il vinile che sporgeva dalla busta - c'è uomo o donna questa volta?

    Perchè, nonostante non sapesse spiegarsene il motivo o comprenderne le ragioni, aveva capito che da quei dischi poteva uscire della musica apparentemente sempre diversa, e secondo Einar dipendeva da quale persona ci era stata magicamente intrappolata dentro. Poi soffiò aria dalle narici, quando Theo riempì quei due calici e gliene passò uno, millantando che avrebbe certamente battuto il sidro. Lo prese con un'accortezza strana, quasi inedita, dato che non era abituato ad avere a che fare solitamente con le cose fragili o da maneggiare con cura; legno, metalli, corde, quello era il suo standard.

    Non dovresti.

    Oppure, grazie Theodore.

    Fare questo. Portarmi cose, o fare doni. Non sto facendo niente per meritare tua cura.

    Anzi, sembrò dire con l'espressione, e con lo sguardo che tornò verso la finestra. Ogni giorno passato da Theo lo metteva in un pericolo che forse il ragazzo aveva considerato e accettato volutamente, ma Einar faticava enormemente anche solo a pensare - ben lungi dal farselo star bene.

    Dèi hanno smesso di parlarmi.

    Disse, poi, con una convinzione tale da far sembrare così perentoriamente vera e reale quell'affermazione. Perchè, in effetti, vera e reale era per Einar.

    Forse tuo Dio protegge questo posto. Forse è punizione per essere dentro città-incubo. Ma loro silenzio mi impedisce di vedere cose, di comprendere perchè.

    E ormai, infedele per infedele, tantovaleva dare un sorso a quel vino che riempiva il calice mentre gli occhi, gelidi e imperturbabili, tornarono su Theo e lo guardarono togliersi gli abiti da lavoro, immobile e in silenzio.

    Theocracy• questa gif a colpo basso ne esigeva un'altra come minimo. lungi da me interrompere la sfida
     
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    Non avrebbe mai ammesso, nemmeno con sé stesso, quanto gli piacessero quelle domande fuori dal mondo. Stare vicino ad Einar voleva dire fare un passo indietro e riconsiderare l'universo conosciuto, per poter ri-assemblare il suo immaginario così che lui potesse capire. Non era come spiegare ad un bambino, perché il bambino non avrebbe capito quegli archetipi che Einar, da uomo grande e cresciuto già conosceva, quanto piuttosto ridisegnare il mondo scomponendolo, per poi utilizzare gli stessi pezzi per renderlo conosciuto ai suoi occhi.

    L'ufficio è... un posto dove una persona si nasconde per lavorare, è un traguardo in alcuni posti... in altri invece è un loculo dove entri da giovane ed esci quando sei troppo vecchio per goderti la vita.

    Era commovente e a tratti lusinghiero, quel suo affidarsi a Theodore per vedere il mondo con i suoi occhi, come se fossero due parti della stessa cosa. Lui, vestito ancora con quegli strani abiti di pelle che gli davano un'aria selvatica; l'altro, con tutti quei pizzi e merletti, le perle che pendevano dalle orecchie nascoste da vaporosi boccoli dorati, e quel suo profumo che ne avvisava la presenza ancor prima che entrasse in una stanza. Diversi tanto da stare su due antipodi, ma con un febbricitante bisogno l'uno dell'altro, che li aveva condotti lì, sotto quel tetto.
    Ed era di bisogno che si trattava, sempre e comunque. Qualcosa che andava oltre il semplice comprendonio. La necessità porta gli esseri viventi a comprendersi senza il bisogno di parlare. Theo prese il vinile dalla busta, lo tirò fuori dall'involucro di cartone e lo mise sul piatto del giradischi. La voce di Miles McCann uscì gracchiante dall'ottone.

    Sai qual è il tuo problema Einar? - Chiese con un mezzo sorrisetto, alzando lo sguardo su quell'uomo che continuava a rimarcare su quanto non si meritasse nulla, in maniera convulsa - Che non ti godi mai il momento... Il tempo fugge caro mio, e gli Dei non ti hanno donato una vita per far si che tu la sprecassi scusandoti per la tua sola esistenza.

    A quelle parole, aprì le braccia cercando di occupare tutto lo spazio che il suo corpo esile riusciva ad occupare. Gli faceva ancora specie che dentro quel corpo imponente, statuario e pieno di ferite, si nascondesse una creatura a tratti spaurita e remissiva.

    E perché tu lo sappia, il mio Dio è vagamente sadico.
    Cielo, gli altri hanno babbo Natale e regali da scartare, noi durante l'Hannukkah abbiamo trottole di legno, pane azzimo, ed il bruciore di stomaco per un mese, augurati solo che lassù abbia di meglio da fare che proteggere questa casa.


    Rimase a guardarlo qualche istante bere il vino, quasi per assicurarsene, lo imitò sparendo dietro la parete della camera per aprire i rubinetti della vasca.

    Senti un po' - gridò dal bagno, come se non fosse notte fonda - Io mi faccio un bagno, mi tieni compagnia?

    Ed il bagno per Theodore era come una sorta di rito sacro, un rituale che ripeteva più volte al giorno ma che ogni volta aveva un diverso scopo e diversi ingredienti. Prese dalla mensola, scegliendo tra la miriade di boccette e contenitori, gli stessi che aveva utilizzato la sera precedente e quella prima ancora: sali, oli e lavanda.

    Comunque se ti vuoi mettere qualcosa di più comodo, puoi prendere dei vestiti dai miei cassetti.
    Non hai caldo con quella roba addosso?


    Con la tua ultima gif, ho dovuto rincarale la dose.
     
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    Che qualcuno potesse nascondersi per lavorare era un concetto, un'idea forse, estremamente lontana dal modo in cui era cresciuto e si era abituato a concepire il mondo; in quei villaggi dove l'identità non poteva prescindere dal mestiere, basti pensare al tipico fabbro, al pescatore, al guaritore e via discorrendo, avere un luogo chiuso dove invecchiare non aveva per niente l'aria di un traguardo, tanto che quella prospettiva di vita triste - forse anche più della sua - lo portò a far comparire qualche piccola ruga sottile sulla fronte.

    E succede spesso che persone finiscono dentro ufficio?

    Chiese, ormai quella parola aveva acquisito una connotazione piuttosto negativa, una da cui doversi tenere lontano. Ne avrebbe sicuramente tenuto lontano anche Arne, era sicuro che in qualche modo, anche se non sapeva ancora come, sarebbe riuscito a dissuaderlo dall'avere nella vita l'ambizione di finire in un ufficio.

    Uomo.

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    Si rispose da solo alla voce che uscì dal vinile di Theo, naturalmente non aveva la minima idea di chi fosse il cantante, ma ascoltò in silenzio per qualche manciata di secondi, cercando di stare dietro alle note, alle parole. Ma soprattutto alla storia, perchè le canzoni in fondo dovevano parlare sempre di una storia, narrazioni di gesta eroiche, canti di guerra e di imprese destinate a restare nella memoria. Neanche in quel caso stava sentendo di cruente battaglie e di guerrieri valorosi, dunque neanche quel cantante sarebbe entrato particolarmente nel cuore di Einar, ma non polemizzò, tanto più che Theo gli stava sottolineando i problemi che a suo dire lo affliggevano, senza fare i conti con quanto orgoglioso, cocciuto e tenace poteva essere un vichingo trapiantato in quelle condizioni.

    Non hanno donato mia vita neanche per farmi rovinare vite di altri.

    Obiettò, decidendo di lasciare da parte questioni ben più profonde e controverse, come ad esempio il domandarsi perchè in effetti gliel'avessero donata, quella vita, se nella onniscente visione che riteneva avessero sapevano che poi gli avrebbero tolto tutto, un pezzo alla volta.

    Hai pensato a che cosa succede se da tua porta entra qualcuno. Se usano magia per scoprire che cosa stai ospitando dentro tua casa.

    Poste come domande, ma retoriche nel tono, che alla fine non le faceva apparire davvero tali.

    Questa è gabbia - disse, toccando con la mano il muro della parete a cui era vicino, e continuando a guardare Theo - ma per tutti e due.

    E se da un lato era sicuro che Theo tutte quelle cose le sapesse già, che avesse già messo in conto tutto quanto, dall'altro temeva fortemente che a quei pericoli non stesse dando il giusto peso. Che li ignorasse, volutamente, sulla spinta di quel fuoco che sapeva appartenergli, quello a cui era solito avvicinare la mano per sentire il pericolo del bruciore sulla pelle, così da ricordarsi di averne una. Una forma di sopravvivenza che Einar gli aveva letto addosso, ma che non sapeva se e come sottrargli. Soffiò fuori aria dalle narici, e spostò l'attenzione sul Dio sadico che il ragazzo ora stava descrivendo.

    Cosa offrite in dono per sua benevolenza?

    Chiese, curioso, già che di sicuro dentro la città-incubo non c'erano animali da cacciare, nè altari sacri alle divinità a cui votarsi. E prese un sorso di vino a cui ne seguì un secondo, non trovava sgradevole il gusto, anzi. Sembrava piacergli, ma non lo diede a vedere, fosse anche solo per difendere l'onore del suo sidro, a Theo. Che nel frattempo era sparito in bagno, sentì i rubinetti della vasca aprirsi, e con essi arrivare la richiesta di compagnia che, per fortuna, stava pervenendo con una camera di distanza e tutto il tempo del mondo per gestire la reazione di stupore che gli attraversò l'espressione, proprio quella che di solito non si scomponeva mai di fronte a nulla. Gettò un'occhiata fuori dalla finestra, poi spostò gli occhi al bicchiere, senza sapere perchè si ritrovò a finirlo d'un fiato, appoggiandolo vuoto sulla prima mensola libera. Non rispose a parole alla sua richiesta di tenergli compagnia, anzi, aveva rimesso su la medesima espressione da cruccio perenne che ben gli apparteneva, ma mosse direttamente dei passi sul pavimento per aggirare la stanza ed affacciarsi in quella che vedeva ora Theo impegnato con i preparativi del suo bagno.

    Perchè hai così tante boccette e contenitori per tuo bagno?

    Chiese l'uomo che, quando trovava un fiume profondo abbastanza per lavarsi, era già sufficientemente contento così. Figurarsi se poteva comprendere l'importanza dei sali, degli oli e di tutti i prodotti del genere.

    Ho sempre caldo qui. Anche senza vestiti addosso.

    Che, detta così, sarebbe potuta suonare come una frase altamente fraintendibile. Eppure era vero, l'Inghilterra per Einar era come un sud tropicale a prescindere, figurarsi a Londra; difficilmente sarebbe mai stato in qualche parte del mondo dove avrebbe sentito di nuovo freddo.

    Li tolgo quando sei fuori casa e poi li rimetto quando devi tornare. So che dovrei tenerli sempre, per rispettare tua ospitalità e tua casa, ma se questa è città-incubo è anche per temperature.

    Ammise, proprio mentre si appoggiava con la spalla contro lo stipite della porta, incrociando le braccia al petto scoperto e guardando Theo alla sua gentile offerta di prestargli dei vestiti.

    Sono comodo, grazie.

    Che fosse sincero o che fosse l'ennesimo modo per dargli meno disturbo possibile non era ben chiaro, anche perchè, di lì a poco, si sarebbe concesso addirittura una curva minima delle labbra nella vaga rassomiglianza di un sorrisino, appena accennato, quasi impercettibile, ma presente.

    E poi, ho visto vestiti che prendi da tuoi cassetti. Vanno bene per persone mingherline come te o Arne, per adulti forti invece servono vestiti più grandi.

    Era chiaro, ma non per questo meno strano o insolito, che lo stesse quasi prendendo in giro in un modo che sembrava anche bonario, quasi scherzoso - proprio lui che di norma non era in grado di padroneggiare l'ironia, nè di scherzare per l'appunto sulle cose. Oltre alla spalla, anche la tempia andò ad appoggiarsi di lato contro lo stipite di quella porta dove sostava, in modo da continuare a guardare Theo.


    Theocracy• un po' di attesa, ma spero che apprezzerai questo passaggio alla posizione orizzontale
     
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    Oh... si, molto spesso...

    Lo disse con un tono di voce particolare, come se stesse raccontando una storia dell'orrore davanti ad un falò per spaventare qualcuno. Sapeva, o almeno poteva intuire, che il lavoro d'ufficio era quanto di più lontano ci potesse essere nella vita di Einar. Più dei dischi in vinile o del vino fermentato degli Elfi. E a ben pensarci, descrivere il tipo di vita da ufficio era molto più difficile di quanto non sembrasse. Era un concetto ormai talmente tanto radicato nella loro società che era diventato quasi un concetto ontologico, che non aveva bisogno di spiegazione. Come non aveva bisogno di spiegazione la febbrile brama di potere che spingeva Theo e ragazzini come lui a voler affisso la propria targa fuori da quell'ufficio.

    È più... un simbolo, vedila così.

    Si mise a terra, sfiorando la superficie dell'acqua per saggiarne la temperatura.

    Avere uno di quegli uffici è un po' come imporre la propria esistenza, un'esistenza tale che ha bisogno di uno spazio che le altre esistenze non hanno.

    Theo non aveva bisogno di quel luogo, come alla fine nessuno lì al Felix ne aveva davvero la necessità.
    Un animale per far sì che viva felice ha bisogno di spazi aperti, acqua, cibo... ma gli esseri umani avevano trasformato qualsiasi cosa in un simulacro di potere, e quello sgabuzzino era diventato in tutto e per tutto nell'immaginario dei dipendenti del Felix l'oggetto del desiderio.

    Pensa che in Italia un poeta particolarmente famoso aveva fatto abbassare lo stipite della porta del suo ufficio così che tutti coloro che entravano si ritrovavano costretti ad inchinare il capo. Persino i dittatori e politici.

    E forse ad Einar tutta quella spiegazione sarebbe parsa stupida, priva di significato. Ma per quanto non fosse suo compito provare a salvarlo da qualcosa di ben più grande e pericoloso dell'ufficio per la Coordinazione delle Creature Magiche, per il tempo trascorso insieme avrebbe tanto voluto fargli capire qualcosa in più di tutto quel mondo che si stava perdendo, qualcosa che aveva anche a che fare con quel suo estenuante vizio a farsi piccolo piccolo, a costringersi in un piccolo antro oscuro unicamente per paura.
    Einar era come un elefante in una cristalleria, ma il suo ossequioso modo di colpevolizzarsi non avrebbe sicuramente migliorato la situazione.

    Einar pensi davvero che tu potresti rovinarmi la vita?
    Anzi... riformulo, pensi davvero che io lascerei che tu mi rovinassi la vita?


    Anche se quella aveva tutta l'aria di essere una domanda retorica, la dura verità di quella faccenda era che Theodore non aveva il ben che minimo controllo. Testimone il fatto che l'unica donna che giurava di aver mai davvero amato era una sconosciuta che lo aveva spinto ad un colpo di testa che era costato la vita di tre persone ed il loro incarceramento. Theodore non solo non aveva il controllo, situazioni simili lo eccitavano, lo facevano sentire vivo come mai. Il pericolo però non era Einar ed il suo nascondersi dagli auror, l'unico pericolo nella vita di Theodore Lockhart era Theodore Lockhart.

    E poi... se dovessero venire qui a trovarmi almeno avremmo una scusa per rivederci, te l'ho mai detto che mi hanno tenuto chiuso qui dentro per mesi? Ero ai domiciliari...

    Incrociò le caviglie, una sopra l'altra; incurvando un poco la schiena per stiracchiarsi e puntando le mani sul tappeto del bagno. Intento a guardare Einar dritto negli occhi per scorgere un qualcosa, curiosità o quel tipo di strano rispetto che la gente è solita riservare ai criminali.
    Non era il tipo da andarsene in giro a vantarsi, di base anche perché inconsciamente non sentiva che nessuno fosse all'altezza dei suoi affanni; ma con Einar era diverso: una parte di lui, molto nascosta e che lui stesso non avrebbe mai ammesso di avere, sperava di suscitare un qualche tipo di emozione nei suoi confronti.

    Preghiere e basta... riti, quando ci sono le festività... ma è tutto ridotto in piccoli gesti quotidiani... l'ebraismo è più uno stile di vita. Ho fatto la Yeshiva, sai? La scuola per studiare i testi sacri... se avessi continuato e non mi fossi riscoperto un mago forse sarei diventato un rabbino. - prese il coperchio di un barattolo di sali e se lo mise a mo' di kippah - Mi ci vedi con la barba lunga ad ufficiare i riti dello Shabbat?

    Theodore trovava la sua religione molto più affascinante e dotta di quanto non volesse dare a vedere. A prescindere da Dio e dalle fritture degli Hannukkah c'era tutta una storia di grandi menti, menti brillanti che avevano inventato modi per nascondere le proprie conoscenze agli indegni, c'erano secoli e secoli di storia, di cultura, di miti e di leggende scritte da filosofi e matematici. Era qualcosa che poteva essere apprezzato da chiunque, persino da chi proveniva da etnie e religioni diverse.

    A te non piacciono i profumi? - chiese in risposta alla sua domanda - Non ti piace il mio profumo?

    Si alzò in piedi, avvicinando e sorridendo per quell'eccesso di pudicizia che stava mostrando. Un sentimento che non avrebbe mai pensato potesse avere Einar, così distante da quelle sciocchezze legate al perbenismo di una società che si era sempre ostinato a tenersi lontano.
     
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    Era diventato ormai un esercizio mentale, uno abbastanza ricorrente in quei giorni; ascoltare i racconti di Theo e cercare di costruire nella sua mente le immagini di tutte quelle cose che non aveva mai visto, e che probabilmente non avrebbe mai visto neanche nella restante parte della sua vita. Si era immaginato questi uffici come simbolici, come fossero tutti costruiti uno diverso dall'altro e per rispecchiare in tutto e per tutte le persone che li occupavano, probabilmente ne avrebbe davvero compreso le reali fattezze se e quando - ma verosimilmente mai, avrebbe messo piede in uno di quelli. Eppure, l'aneddoto del poeta lo indusse a soffiare fuori una zaffata d'aria dalle narici, mobilitando quella parte di sè costantemente devota a guerra e barbarie.

    Se uomo ha bisogno di abbassare sua porta perchè altri debbano chinare testa quando gli sono di fronte, allora è uomo di poco valore.

    Einar non era mai per questo genere di cose, per i trucchi, gli strategemmi, o anche solo, come in quel caso, gli espedienti più sottili per raggiungere l'uno o l'altro fine. A lui bastava andare dritto al punto, come sempre.

    Vero guerriero prende teste di uomini che vuole vedere chinate, come politici e dittatori che hai detto tu, e mette queste teste su pali fuori da sua porta. Così politici e dittatori che verranno dopo avranno monito e mostreranno rispetto, come poeta voleva.

    Neanche sapeva, poi, se il poeta in questione volesse davvero quello; aveva dato una sua lettura, un'interpretazione a suo libero e vichingo gusto, ma dopotutto quelli erano i concetti che l'avevano accompagnato da sempre. Era qualcosa che andava ancora oltre la cosiddetta legge del più forte, era brutalità, imposizione, regole arcaiche di un mondo che agli occhi di chiunque, lì nella Londra civilizzata, dovevano suonare quasi alla stregua di storie per quei bambini disobbedienti che non vogliono mettersi a dormire. Ad ogni modo, il cambio di registro fu dettato dalla coppia di domande successive di Theo. Retoriche, certo, ma anche quello era un concetto poco familiare ad Einar, che con la solita e disarmante schiettezza rispose, per davvero, a quell'interrogativo.

    Certo che lo lasceresti, Theodore.

    Disse, con una naturalezza così marcata a rendere la misura di quanto ne fosse convinto, cercandone per qualche attimo lo sguardo, e aggiungendo subito dopo qualcosa a completamento di quella frase appena accennata.

    Dentro di te, dentro parte più profonda di tuo animo, tu vuoi che io provi a fare esattamente quello. Perchè solo così puoi fare ciò che sai fare meglio di tutti quanti.

    Attese però, prima di spiegare a che cosa si stesse riferendo. Inspirò, e da tante cose, ma soprattutto dallo sguardo e dal tono delle parole che stava usando, si poteva intuire quanto non ci fosse alcuna parvenza di giudizio nel discorso che stava rivolgendo a Theo; dopotutto, come avrebbe potuto, proprio lui. E non gli diede subito quella risposta, restando, anzi, abbastanza sorpreso dal suo racconto successivo. Non che nella sua cultura esistesse il concetto dei domiciliari, ma comprese che degli Auror lo avessero tenuto prigioniero in casa sua per mesi interi.

    Bloccato dentro tua stessa casa? E perchè?

    Era curioso, e nonostante fosse sempre piuttosto difficile leggere qualche stato d'animo in Einar, una parte di quella curiosità trapelò comunque dal modo in cui lo sguardo rimaneva su Theo, dopo quella sua premessa. Tante cose aveva immaginato nel corso del tempo, su di lui; cose che sapeva, cose che invece erano frutto dei suoi fantasiosi pensieri, ma quale fosse davvero il limite del ragazzo che gli stava di fronte, ammesso poi che ce ne fosse uno, era una conquista a cui ancora doveva arrivare.

    Forse sì.

    Ammise, quando Theodore gli parlò della scuola che aveva frequentato, di quei testi sacri e della possibilità di diventare un rabbino. Qualunque cosa fosse un rabbino, che Einar ormai, imprando ad intuire per associazione, aveva collegato a qualcuno che officiasse per quella religione.

    Ti vedrei così. Anche immaginandoti a casa, saresti stato ottimo sacerdote per nostri dei.

    Aveva usato la parola casa in un modo forse troppo spontaneo, ed anche piuttosto insolito; non la nominava quasi mai, e quando capitava era sempre posto da dove vengo, mai casa, da così tanto tempo che si stranì immediatamente nel rendersene conto in quel frangente. Tanto che quel discorso non proseguì oltre, ed anzi l'attenzione virò velocemente su Theo quando lo vide alzarsi e andargli incontro. Con quella doppia domanda che lo trovò sempre lì, fermo ed appoggiato contro lo stipite della porta, braccia che sciolsero il loro intreccio solo quando all'avanzare di Theodore fece specchio quello di Einar. Si scostò dalla porta, mosse qualche passo verso l'interno, fermandosi quando si sarebbe trovato praticamente di fronte al ragazzo. Quel barlume d'ironia che aveva mosso un attimo prima venne immediatamente scacciato via da uno sguardo che, in quel momento, avrebbe fatto quasi timore per quanto era serio. Perchè serio era in fondo il concetto che quegli occhi cristallini stavano solo veicolando, che ci aveva messo un po' a capire lui stesso, ed un tempo infinitamente più lungo per accettarlo. Figurarsi, poi, quanto gli stava servendo per dirlo ad alta voce, a quel punto.

    Non mi piace tutto quello che camuffa tua vera natura.

    Forse per Theo la vera natura si legava anche all'uso di quei profumi, ma per Einar i dettami erano diversi. Metà di sè apparteneva al mondo animale, predava, cacciava, fiutava.

    Se respiro te, voglio sentire te.

    E non si mosse, non di un centimetro, ma le narici catturarono davvero quello che le parole stavano raccontando, filtrando tutto ciò che non fosse proprio di Theodore.

    E ho imparato tuo odore. Da un po', ormai. So sentire quando sei vicino Theodore, so sentire quanto lentamente ti allontani quando te ne vai, so quello che fai anche senza che miei occhi ti vedano o anche se sei a tre camere di distanza.

    Che in una certa prospettiva sarebbe anche potuto suonare come un qualcosa di vagamente inquietante, ma da quella di Einar, sopratutto per com'era Einar, tutto quel discorso sottintendeva un significato decisamente diverso. Molto più intimo e personale.

    Quindi .. no. Non importa cosa ci metti sopra, o come la copri - non puoi più nascondere, a me, tua pelle. E non voglio neanche che tu lo faccia, in verità.

    E, sembrava dire, neanche quello che metaforicamente c'era al di sotto di quella. Quanto ci fosse di umano, quanto di lupo, quanto di animale e quanto di predatore, in tutto quello, non era probabilmente semplice da discriminare e distinguere; solo a quel punto, però, la destra di Einar si mosse. Non avrebbe mai saputo dire il perchè, o comprendere appieno le ragioni di quel gesto, che in realtà cercò un semplice appoggiare del palmo della mano sul lato del volto di Theo; probabilmente lì, tra guancia, mento e orecchio, dita aperte a raggiera a offrire quella che risultò essere una carezza ruvida e sgraziata, cercata con un singolo movimento del pollice a strofinare contro il viso. Mancante di ogni possibile delicatezza insita in gesti di quel tipo, una pressione che avrebbe rimarcato quell'affetto distorto nelle maniere che Einar conosceva, e che solo così poteva esprimere; più come bestia, che come uomo.
     
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    Se infilzi le teste sulle picche finisci in carcere Einar... e francamente, preferirei morire piuttosto che sottomettermi a certe umiliazioni.

    Lo disse con leggerezza, senza pensarci troppo.
    Una menzogna, ovviamente.
    Persino lui si era sorpreso più d'una volta di sé stesso: di cosa fosse disposto a fare pur di rimanere vivo, lucido e inerme in quel mondo. Aveva imparato da solo a sopravvivere. Un diciassettenne "pieno di risorse" che però non aveva ancora compreso come convivere con l'umiliazione che la sua sopravvivenza più d'una volta gli avevano imposto.
    E forse era proprio quello che avrebbe voluto spiegare ad Einar, se solo non fosse stato tanto difficile ammettere quanto fosse caduto in basso più di una volta.
    Quanto costasse sulla sua pelle convivere con la consapevolezza di aver abbassato la testa sotto imposizioni, che avevano il valore di una porta troppo bassa per la sua statura. Se da una parte morire sarebbe stato veloce ed indolore, (che poi alla sua morte della sua testa avrebbero potuto farci quel che più volevano, dato che il suo corpo non era che un grazioso guscio dell'universo in espansione che aveva dentro) il ricordo di quei momenti tornavano a fargli visita quasi ogni notte.

    Di quel che venne dopo, del modo in cui Einar aveva imparato a guardarlo dentro, cercò in tutti i modi di non darci peso.
    Fece finta di cercare qualcosa, facendo spallucce ed obbligando sé stesso a non cedere alla curiosità di voler scoprire che diavolo intendesse Einar con quella frase, quel "Perchè solo così puoi fare ciò che sai fare meglio di tutti quanti."
    Avrebbe voluto saperlo, ciò che secondo Einar, lui sapeva fare meglio di tutti quanti. Avrebbe voluto sapere anche solo per sentire la sua voce lodarlo, dargli dello scaltro o del malato.
    Si limitò invece a prendere in mano una boccetta a caso, una qualsiasi che giustificava il fatto che non lo stava guardando negli occhi. Che in quel detto e non detto, nella lingua tutta loro tra Einar e Theo, persino abbassare lo sguardo aveva una varietà infinita di significati e significanti, e tra un mare di interpretazioni possibili, quell'enorme energumeno che a stento riusciva a parlare un inglese comprensibile, e viveva ai confini della società, riusciva sempre ad intuire perfettamente quel che Theodore volesse dire.

    La donna di cui ti avevo parlato al nostro primo incontro, ha dato fuoco ad un posto dentro il quale c'erano delle persone... ed io ero lì, non c'erano prove per incolparmi, io non ricordavo nulla e quindi mi hanno tenuto qui dentro finché non hanno capito che non potevano accusarmi di niente...

    Occhi bassi, ancora; questa volta a dosare una goccia alla volta l'olio nella vasca.
    La voce flebile ma inflessibile, la mano ferma e le labbra serrate, dopo aver pronunciato quella frase piena di sottintesi.
    Ci teneva sempre a precisare che lui non ricordasse nulla, come se non sapesse che Jiselle non avrebbe avuto motivo per imperiarlo; che lui l'avrebbe seguita anche in capo al mondo, che quindi Einar aveva pienamente ragione, e lui ed il suo cuore rendevano il suolo su cui metteva piede un vero e proprio campo minato.

    Magari ci siamo incontrati in un'altra vita, ed io ero uno dei sacerdoti del tuo villaggio.

    Alzò lo sguardo, riponendo a casaccio la fialetta su un pensile.
    Sapeva poco o nulla del posto da cui proveniva.
    Se con il 99% delle persone non faceva troppe domande perché non gli importava delle loro risposte, con Einar era piuttosto dovuto al concederli spazi che sapeva volere: una forma di rispetto silenziosa.Ed era strano, delle volte: era strano perché fin dal primo momento, con Einar era stato tutto diverso: come se stesse attraversando una terra inesplorata. Era così simile a lui, ma allo stesso tempo così diverso che quella sensazione - la sensazione di essere compresi - gli scaldava il cuore e lo terrorizzava al tempo stesso. Aveva imposto a sé stesso, senza ragionarci più di tanto, che i loro corpi sarebbero stati l'unico confine per far sì che quella vicinanza non diventasse troppo pericolosa. Jiji, come da un anno a quella parte, fungeva da simulacro: una divinità intangibile che con la sua unica esistenza - da qualche parte chissà dove - lo teneva alla larga da tutte le possibili situazioni in cui sarebbe finito col farsi male.
    Devoto, come non lo era mai stato, ad un fantasma.
    Eppure, quando lo vide avvicinarsi a lui, l'unica cosa che riusciva ad immaginare Theodore era finire tra quei due tronchi di braccia, esserne circondato e stretto fino a non sentire altro che calore.
    Ed Einar forse non poteva comprendere quanto quel profumo fosse ormai parte di lui, o forse, Theo non voleva assimilare il fatto che Einar riuscisse sempre nell'intento di spogliarlo. Nudo senza tutti gli strati di tessuto, merletti e paccottiglie che lo schermavano dal mondo.

    Il suo sguardo si posò sulle labbra di lui, mentre parlava in quel modo del suo odore. L'odore che Theo iniziava a volergli sentire addosso così che chiunque, da quel momento in avanti, quando avrebbe incontrato Einar lo avrebbe riconosciuto come il suo. Glielo voleva sentire addosso così che si ricordasse di lui anche quando non c'era, la notte... quando non riusciva a prender sonno.

    Cosa sono io per te.

    Un ultimo sussulto prima di sentire la sua pelle addosso, mentre crollava ogni resistenza.
    Non fu perché Einar era tanto bello da riuscir a mettere in ginocchio il sole, non fu neppure perché per Theo, comportarsi così era comune amministrazione, fu piuttosto per quel modo dell'uomo di vederlo, vederlo davvero... che era commovente e spaventoso allo stesso tempo.
    Tese le mani verso il viso; per prenderlo mentre si alzava sulla punta dei piedi per baciarlo.
    Si sarebbe allontanato poco dopo, in silenzio con gli occhi chini, intento a togliere quel che restava dei vestiti di Einar.
    Quello era l'unico modo per Theo di dimostrare affetto, l'unico modo di dichiarare amore.

    Colonna sonora:


     
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    Colpa di tuo mondo. Di regole e di obblighi complicati che seguite. Se infilzi teste su picche è perchè teste meritano di finire su picche.. resto è tutta costruzione di uomo del sud.

    Perchè a conti fatti, per Einar, ogni parte del mondo finiva inevitabilmente con il trovarsi a sud, rispetto alla sua cartina geografica mentale. E anche lui si trovò a parlare di quegli scenari con una leggerezza che forse aveva ostentato da sempre, che lasciava sottintendere, quasi, una mancanza di rispetto nei confronti della vita e delle persone; in realtà, i meccanismi dietro quei concetti erano tremendamente più profondi, insiti nel retaggio, certo, ma anche in ciò che con l'abitudine si era radicato come l'unico strumento che garantisse sopravvivenza. Come nel regno animale, dopotutto, dove di solito vive chi caccia, e non chi viene cacciato. Non proseguì oltre, limitandosi invece ad osservare in silenzio Theo e quel deviare degli sguardi, che rifuggivano verso le boccette o i preparativi per il suo bagno, tacendo su un discorso che era ancora lì. Inconcluso, probabilmente destinato a rimanere tale, ma che se da una parte trovava Theo a dissimulare indifferenza a riguardo, dall'altra vedeva Einar determinato a non insistere nè incalzare oltre; sapeva che le cose, soprattutto quelle cose, necessitavano a ciascuno un tempo diverso. E, almeno di quello, sembrava averne accortezza. Ascoltò piuttosto il suo racconto su Jiselle, su quei fatti accaduti e, soprattutto, su come gli erano raccontati.

    E tu eri lì per? Aiutare donna, aiutare persone dentro quel posto, o nessuno di due motivi?

    Chiese, non tanto per approfondire i fatti di cronaca, o per avere un resoconto dettagliato dell'accaduto; la sua curiosità era altra, riguardava Theo, in un certo senso, ma riguardava anche loro.

    Hai timore di mio giudizio, Theodore?

    Che sì, era una domanda nata in conseguenza a quel discorso, ma no, non si limitava solamente a quegli ultimi argomenti di cui stavano parlando. Era il tono a sottintendere, con quella sfumatura, che stava allargando a qualcosa di molto più generale, di insidioso, anche. Perchè non era una domanda facile, a dispetto di tutta la semplicità con cui Einar sembrava porre quelle questioni. E annuì, poi, a quella sua ipotesi su una vita precedente, su un ipotetico incontro di altri tempi e soprattutto sul ruolo che Theo avrebbe potuto rivestire in un villaggio come quello di Einar.

    Non è tardi. Se tuo dio continua a essere sadico, posso farti conoscere miei.

    Realistico nei termini in cui probabilmente l'avrebbe fatto davvero, ma nutriva abbastanza convinzione sul fatto che Theo e la sua religione sarebbero rimasti insieme molto a lungo, così come lui del resto avrebbe fatto con la propria, a prescindere dalle circostanze più o meno avverse. E quelle che si sarebbero sviluppate di lì a poco, poi, non avrebbe saputo nemmeno come catalogarle. Si era scucito parole che reclamavano un prezzo, aveva ricevuto indietro quella domanda, semplice, breve, capace di aprie squarci nel presente e soprattutto nel passato. Theodore era troppe cose per poter essere circoscritto in una parola, in un termine, in una spiegazione narrata. Ci avrebbe provato, comunque, a fornirgliela; ma non prima di incappare in quel maremoto che gli si era abbattuto contro nel momento in cui sentì le sue mani tendersi e lo vide avvicinarsi. Einar, per ovvie ragioni, non aveva mai baciato un uomo; ad essere ancor più precisi, aveva baciato una sola persona in tutta la sua vita, per anni, sempre e solo lei. Ed ora ne erano passati altrettanti da quando non si era mai più avvicinato in un modo del genere a nessuno, vincolato a qualcosa in cui Theodore, per assurdo gli era specchio; la devozione ad un fantasma, appunto, incrociata ad uno spasmodico bisogno di fedeltà che per i lupi è quasi commovente. Scelta una compagna, quella sarebbe rimasta per tutta la vita, e idealmente anche oltre; Einar non sapeva se avrebbe incontrato Lena nel Valhalla, ma lo sperava, seppur con tutto il suo cinismo, ancora. E nessun legame si era mai avvicinato tanto da scalfire tutte queste inviolabili fondamenta, prima di Theo. Theo che, in quel momento, stava baciando e avrebbe potuto sentire direttamente sulla pelle del viso, lì dov'era rimasta la mano di Einar, il contrarsi di ogni muscolo e nervo teso quasi fino a farsi male. Perchè la verità era che il modo in cui gli si era insinuato sottopelle, quel ragazzo così tanto simile e distante al contempo da lui, non lo governava più; non l'avrebbe saputo arginare, e, chissà, forse la spiegazione più vera era anche la più semplice, ossia il fatto che magari non volesse, davvero, arginarlo.

    .. dolore

    Ecco la risposta alla domanda di Theo, pronunciata con un filo di voce, talmente bassa nel tono che, non fossero stati così vicini, probabilmente le parole si sarebbero perse nell'aria. Non convenzionale, certo, come definizione; ma non c'era un modo migliore, per Einar, di descrivere e raccontare l'amore o le forme che aveva per lui, che, appunto, convenzionali non erano per niente. L'amore romantico, quello delicato, quello fatto dei sentimenti più puri e nobili era quanto di più distante ci fosse da lui.

    Quello che avevo giurato di non sentire più. Non volevo sentire più niente, Theodore, niente. Per nessuno.

    Ma lui, invece, lo aveva costretto a sentire di nuovo. Ed era frustrante, spaventoso, doloroso e tremendo al tempo stesso; lo dicevano quegli occhi gelidi che si stavano screziando di un bagliore quasi lucido, lo diceva il corpo che era teso, contratto come se ci fossero invisibili minacce pronte ad arrivargli addosso potenzialmente da ogni parte, e solo schermarsi avrebbe potuto difenderlo davvero. Eppure, qualcosa si era riacceso, perfino quel dolore era un enorme salto in avanti, rispetto al niente che sottostava prima. Einar non se ne sarebbe mai reso conto presto, e Theo chissà. Non gli importava di non avere più vestiti addosso, ormai, non quando le mani stavano toccando quel dolore e sentiva dentro un bisogno quasi bruciante di non potersene staccare più; c'era dentro, scappare non avrebbe cancellato quella sensazione di averne ancora, e ancora. Perchè è quello che succede, in fin dei conti, quando si tengono ingabbiate le cose troppo a lungo, quando si reprime, si cerca di soffocare qualche fuoco inestinguibile.

    Non posso perdere altro. Lo sai?

    Erano poche parole, brevi, ma enormemente pesanti. E mosse la mano che teneva sul suo viso perchè, senza forzatura seppur nei soliti modi poco aggraziati che gli appartenevano, sollevando il mento di Theo potesse tornare a guardarlo dritto negli occhi, parlandogli e raccontandogli tutto quello che sarebbe stato inesprimibile a voce.
     
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    Theo annuì assecondandolo, come se potesse anche solo aspettare prima che Einar rinsavisse da quella violenza di cui non riusciva mai davvero ad immaginarlo.

    E chi dice che il motivo per cui tu li hai infilati sulle picche è un motivo valido? La forza non può sovrastare la ragione, Einar.

    Non riusciva a vederlo Einar, staccare una testa e metterla su una picca. Quel che riusciva a figurarsi guardando l'oceano nei suoi occhi, era solo dolcezza e stordimento. Non immaginava potesse esserne capace di ferire qualcuno, a dispetto di tutto quello che gli aveva detto in passato Einar rimaneva sempre quell'uomo docile ed indifeso che cercava suo figlio nella folla, passando in rassegna i volti dei bambini per trovare la zazzera bionda e spettinata di Arne.

    Io ero lì per lei.

    Rispose poi, in una verità che trovava fondamento in quelle poche e coincise parole. Non avrebbe dovuto aggiungere altro: nessun arzigogolio sintattico per indorare la pillola o eludere qualcuno; nessuna confessione o omissione, solo la cruda verità.
    Theo quella sera era lì per Jiselle ed era rimasto solo per lei.
    Pensava spesso a quella notte.
    Cercava ancora di rievocare la sua figura che via via si faceva sempre più sbiadita, ma quel che riusciva a figurarsi ormai erano solo i suoi occhi bui, le guance scavate, i capelli bruni.
    Pezzi di un puzzle che giorno dopo giorno si faceva sempre più difficile da mettere insieme. Non ricordava più neppure la sua voce o il suo odore. Ma lì, davanti a lui Einar era qualcosa di reale e tangibile, e Theo stava imparando ad amarlo; perché in cuor suo, Lockhart amava la stramaledetta difficoltà.
    Quando l'aveva visto la prima volta, mai avrebbe potuto pensare che dopo qualche mese sarebbero stati lì, nudi nel suo bagno a pochi centimetri di distanza. Non l'avrebbe mai immaginato perché sapeva che in quel suo mondo di brutalità non c'era spazio per loro due, ed il vuoto che aveva lasciato la sua compagna - la madre di Arne - Theo non sarebbe mai riuscito a colmarlo. Eppure, anche se il vuoto che avevano nel petto era una voragine in piena espansione, lo aveva cercato e ricercato, permettendogli di entrare in casa sua e vivere quello spazio così intimo e privato, come mai aveva concesso a nessuno prima di allora.

    Se sono dolore, perché non te ne sei andato... perché sei qui?

    Glielo chiese accorciando le distanze tra loro. Se l'avessero posta a lui quella domanda, avrebbe risposto solo che Einar era capace di toccarlo, anche senza toccarlo davvero. Einar era un incendio boschivo nel suo cuore, e dopo quel bacio ebbe solo voglia di averne di più, senza preoccuparsi dei se e dei ma.
    Fece scorrere le dita tra i capelli biondi di lui, mentre con l'altra mano gli pinzò delicatamente il mento. Non gli avrebbe fatto promesse che sapeva non avrebbe mai mantenuto; perché per quanto fosse miserevole e spietato, bugiardo e senza scrupoli, non voleva fargli del male.
    Quel che Einar avrebbe mai potuto avere di lui, sarebbe stato solo un ricordo da conservare: qualcosa di profondamente privato ed intimo, come le stanze che gli aveva permesso di abitare insieme a lui. Perché forse l'amore che stava provando in quel momento non sarebbe stato per sempre, ma era vero e viscerale come pochi altri, ed anche se la sua vita piena di sventure sarebbe finita, quel ricordo sarebbe rimasto in quella stanza per sempre.

    Io non posso prometterti niente.

    Lo lasciò fare, alzando le iridi buie in direzione del mare in tempesta e sentì di nuovo il desiderio di baciarlo, anzi... di percorrere ogni centimetro del suo corpo con le labbra fino a sentire il suo nome sulla sua lingua.

    Ma ora sono qui.

    Soffiò quelle parole sulle sue clavicole mentre premeva il petto sul suo e le labbra sul collo.
     
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    E chi dice che deve esistere motivo valido.

    Rispose quasi d'istinto a Theo, infilandosi in uno di quei botta e risposta dove, sapeva bene, sarebbero stati capaci di continuare a camminare per ore. Non era solo dialettica, nè solo confronto tra mondi diversi che erano arrivati a toccarsi, erano loro. Due esseri per certi versi messi a specchio l'uno di fronte all'altro.

    Tante cose possono sovrastare ragione.

    Compresa la forza, sembrava dire. E il riferimento lo lasciò intendere semplicemente facendo scorrere lo sguardo verso il basso, lì dove lungo il corpo si vedevano ancora i segni più recenti che tardavano a sbiadire, o che avrebbero richiesto più tempo per rimarginarsi. Quelli che per buona parte era stato compito di Theo ricucire, guarire e sistemare. Quelli che, poi, sottintendevano come la ragione di Einar venisse sovrastata almeno una notte al mese, perdendosi dietro alle fameliche morse della forza bruta. Aveva bisogno che lo capisse, Theo, o sentiva in cuor suo che presto o tardi ne sarebbe stato sovrastato anche lui, e non avrebbe mai voluto niente del genere.

    E lei dov'è, adesso?

    Chiese senza una vera e propria pretesa di interrogativo, non gli interessava davvero capire dove fosse la donna di cui Theo gli aveva accennato; gli interessava che l'avesse fatto, che avesse aperto una piccola finestrella alla quale affacciarsi, in quello che probabilmente era il suo lato più intimo e protetto. Perchè se tanto dava tanto, e lui e Theo non funzionavano in maniera troppo dissimile nei riguardi del mondo, sapeva che mettere così tanto a rischio per qualcuno, chiunque fosse, sottintendeva ben più di un racconto di cronaca finito in tragedia e con i domiciliari. Ma il seguito delle parole e dei gesti che presero vita in quelle piccole mura avrebbero probabilmente soppiantato tutto in poco tempo, costringendo sè stesso e il ragazzo di fronte a fare i conti con qualcosa di ingovernabile. Qualcosa che probabilmente tutti e due, a loro modo, passavano buffamente il tempo a respingere, rifiutare e negare, salvo poi inciampare nell'inevitabile dettame che governava il mondo. Nessuno si salva da solo, non davvero, non fino in fondo, per quanto ad entrambi servisse crederlo e pensarlo. E quando sentì la sua domanda così netta, così pulita e svuotata di macchinazioni ed artifici, percepì addosso una ventata di fresco passargli sulla pelle. Intangibile, pizzicava come l'aria della sua isola, e in un certo senso ne aveva davvero il sapore; era spaventato dal modo in cui Theo lo aveva riportato fino a lì, in verità. Non abbastanza, però, dal tacere quella che era stata la prima cosa a cui aveva pensato.

    Perchè dolore è prezzo più che ragionevole per tuo amore.

    Quelle parole gli erano rimaste così tanto marchiate addosso, quando le aveva sentite dalla voce di Theo la prima volta, che le aveva ripetute quasi meglio di quanto si aspettasse. Erano state il suo insegnamento, dopotutto; come sempre all'inizio le aveva rifiutate, ma poco alla volta stava sempre di più iniziando a comprenderne il senso. E sul finire, nel convergere di parole e contatti, si trovò a chiudere per un attimo gli occhi lungo quei sussurri che Theo gli stava rivolgendo addosso, muovendo poi nel riaprirli un mezzo passo indietro. Aveva bisogno di guardarlo, di poter tenere dentro quegli occhi freddi come la neve quelli di Theo, mentre tutto sembrò rallentare. Dentro, fuori, persino quei battiti in più che saltavano a ritmo poco regolare.

    Lo so che non puoi. Non ancora.

    Per tante ragioni, che però non espresse a voce, lasciandole tra le tante cose che entrambi sapevano, pur senza bisogno di dirle.

    Ma noi ci leghiamo per la vita, Theodore. Solo morte spezza questi legami, solo morte ti permette di uscire da branco dopo che decidi di entrare. Ti serve tempo.

    Anche se poi si trovò ad ammettere, aggiungendo subito dopo

    Mi serve tempo.

    E c'era molta verità anche in quelle ultime parole, riferite a sè stesso, per tutta la frenesia che si era riscoperto capace di sentire in corpo, per come si fossero accese tante cose sopite, per come tutto, a quell'intensità, per certi versi lo spaventava e aveva bisogno di essere processato. Si spostò, quindi, cercando di muoversi per arrivare fino alla vasca che il ragazzo aveva riempito prima; senza dire una parola scavalcò il bordo per entrarvi, immergendosi poco alla volta in quell'acqua piena di aromi e fragranze e sali profumati. Solo alla fine avrebbe allungato la mano verso Theo in un invito silenzioso, offrendogli uno spazio per entrare a sua volta, qualora l'avesse voluto, entro quelle braccia larghe che sarebbero state pronte ad accoglierlo ed eventualmente circondarlo, senza chiedere nè pretendere altro che quello. Era tutto ciò che aveva da dare, tutto ciò che poteva offrirgli in quel momento, ed in cuor suo sperava che Theo lo scegliesse.

    [ role conclusa ]

     
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